"La famiglia naturale: da tutelare e da promuovere"
Pubblichiamo l'intervento del parroco all'ultimo Consiglio Pastorale Parrocchiale del 26 febbraio 2007, riguardo al disegno di legge circa le convivenze di fatto.
da "Ritrovarci": anno XXX - numero 2 - marzo 2006

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"La famiglia naturale:
da tutelare e da promuovere"
Pubblichiamo l'intervento del parroco all'ultimo Consiglio Pastorale Parrocchiale del 26 febbraio 2007, riguardo al disegno di legge circa le convivenze di fatto.

La decisione di affrontare nel nostro Consiglio Pastorale il tema della famiglia fondata sul matrimonio e il tema del nuovo disegno di legge (DDL), predisposto dal governo italiano circa le unioni di fatto - che in qualche modo conferisce un nuovo status giuridico alle convivenze non matrimoniali, è dovuta a due motivazioni.
La prima nasce dalla costatazione che nella nostra comunità parrocchiale, come del resto anche nelle altre, esiste un grave disorientamento su tali questioni, sia in ordine ai contenuti del DDL, sia alla metodologia di approccio pastorale seguita dalla Chiesa in questa vicenda, ritenuta piuttosto rigida, se non addirittura controproducente.
La seconda rileva le conseguenze di tipo educativo, soprattutto nel campo giovanile, che discenderebbero dall' approvazione dei Di.Co (Dichiarazione di convivenza)
Come affrontare queste tematiche?

E' opportuno un riconoscimento legale delle unioni di fatto?

La prima e più importante questione riguarda l'opportunità o meno di avviare un nuovo status giuridico delle convivenze di fatto. I sostenitori dei Di.Co. affermano: è un dato di fatto che molte coppie convivono e dunque la società (lo Stato, la politica, la legge…) non può disinteressarsi di un fenomeno che è in aumento. E si aggiunge: un eventuale riconoscimento legale di tali unioni non metterebbe affatto in questione il modello della famiglia naturale. Che dire? Certo, la società prende atto dell'esistenza di coppie di fatto. Ma quale tipo di intervento è il più opportuno? Un riconoscimento che arrivi a creare un altro modello parafamiliare? O un intervento che venga incontro a situazioni particolari dei singoli, senza per questo arrivare a creare uno nuovo statuto delle convivenze di fatto, che minaccerebbe la primazia della famiglia naturale, l'unica riconosciuta dalla nostra Costituzione? Infatti la nostra Carta riconosce solo alla famiglia fondata sul matrimonio la caratteristica di "società naturale" (art. 29), proprio per il suo valore unico e specifico in ordine al peso e al ruolo di costruzione della società che essa possiede. Solo nel matrimonio, infatti, un uomo e una donna si mettono insieme per la vita, perché vogliono il bene reciproco e il bene della società, mediante la generazione e l'educazione dei figli. Da qui il riconoscimento e la tutela anche giuridica di alcuni diritti, conseguenti ad altrettanti doveri: diritti e doveri - si noti bene! - della convivenza matrimoniale in quanto tale, e non semplicemente dei singoli.
Il nuovo DDL invece, anziché venire incontro all'eventuale riconoscimento di alcuni diritti dei singoli (per altro già ampiamente garantiti: il che rende inutile un nuovo quadro giuridico), finisce per configurare il riconoscimento di alcuni diritti della coppia convivente in quanto tale, diritti del tutto simili a quelli della famiglia fondata sul matrimonio, senza per altro richiedere i corrispettivi doveri. E' proprio su questo punto il terreno di confronto e di scontro in Parlamento (anche fra le stesse forze di maggioranza) e nel nostro Paese. E' infatti evidente che qualsiasi modello che preveda la registrazione, la certificazione o l'attestazione della convivenza, a cui venisse collegata l'attribuzione di diritti e magari anche di alcuni doveri dei due soggetti che ne fanno parte, finirebbe inevitabilmente per riconoscere legalmente una realtà del tutto simile a quella della famiglia come società naturale, dando origine a un modello parafamiliare che ben difficilmente può evitare di confliggere con l'unico modello previsto dalla nostra Costituzione. L'accensione di un nuovo statuto della convivenza non matrimoniale, che producesse gli stessi effetti dell'unione matrimoniale, senza però chiedere gli stessi obblighi, finirebbe con il configurarsi - al di là delle intenzioni - non come il semplice porsi accanto, come una novità esigita dai tempi, di un modello integrativo rispetto a quello della convivenza coniugale, bensì come un modello alternativo.
Se poi si va ad analizzare l'art. 1 del DDL, dove si afferma che le convivenze, oggetto della nuova normativa, si riferiscono a due persone maggiorenni, legate da vincoli affettivi, indipendentemente dal sesso, si capisce bene dove si vuole arrivare e quali ambiguità e confusioni anche di carattere giuridico si finisce per causare. Infatti, che cosa mai può voler dire, da punto di vista giuridico, l'espressione "vincoli affettivi"? Gli affetti, per natura loro, sfuggono al diritto: caso mai sono gli effetti degli affetti che possono essere giuridicamente rilevanti. L'intera disciplina matrimoniale si limita a precisare che dal matrimonio derivano obblighi concreti , ben descritti dall'art. 143 del Codice civile, quali la fedeltà, l'assistenza materiale e morale, la collaborazione nell'interesse della famiglia, la coabitazione. Così pure il diritto non prescrive (perché non può prescrivere) l'affetto e l'amore dei genitori verso i figli: più concretamente, si limita a precisare che i genitori hanno l'obbligo di mantenere, istruire, educare i figli (art. 147 del Codice civile). Se per "vincoli affettivi" si volessero intendere anche i rapporti sessuali (come tutto lascia pensare), la conseguenza sarebbe quella di introdurre la legittimazione dell'incesto nel nostro ordinamento, perché il testo del DDL esclude dai Di.Co. solo i consanguinei in linea retta, permettendolo tra fratelli e sorelle, o fra zii e nipoti, o fra cugini. Inoltre, una volta legittimata la convivenza fra persone dello stesso sesso, sarà ben difficile (anche se per ora ciò viene escluso: ma si è già detto da qualche autorevole esponente che questa legge è soltanto un "primo passo") resistere alla futura richiesta di poter estendere anche alla convivenza non matrimoniale, secondo la logica del piano inclinato (già ampiamente verificata in Europa nelle leggi del divorzio, dell'aborto e dell'eutanasia, sempre più permissive) alcuni fra i diritti finora riconosciuti solo alla famiglia naturale, come per esempio la possibilità dell'adozione anche da parte di conviventi dello stesso sesso, come per altro è già consentito in alcuni Paesi europei.
In tal modo si riconoscerebbe tutta una serie di diritti - in materia di successione, di pensione di reversibilità, di obbligo di prestazione degli alimenti, di dovere di reciproca assistenza e solidarietà - che l'ordinamento italiano prevede solo in relazione allo status familiare, e proprio per il valore di assoluta primazia che la Costituzione riconosce alla famiglia naturale. Il risultato sarebbe quello di porre le unioni di fatto su un piano analogo a quello del modello familiare e quindi di trattare pariteticamente due situazioni che sono oggettivamente e soggettivamente diverse: oggettivamente, perché solo il patto coniugale fra uomo e donna, con la sua stabilità (ancorché erosa oggi dal divorzio, che comunque rappresenta un vulnus alla indissolubilità matrimoniale) e con la sua fertilità, può assicurare quei benefici sociali che non possono essere perseguiti nella stessa misura da altri modelli; e soggettivamente, perché coloro che rifiutano liberamente il modello della famiglia naturale non si vede perché non debbano essere rispettati in una scelta di vita che si vuol mantenere privata, e quindi non socialmente rilevante. Il principio di non discriminazione - che viene sbandierato da coloro che sostengono la legalizzazione delle unioni di fatto - vale soprattutto in senso contrario: sarebbe discriminante qualsiasi legge che trattasse in modo uguale situazioni differenti, e trattasse in modo differente situazioni uguali.


I "Di.Co." promuovono una responsabilità personale e una crescita della società?
Un secondo problema è di tipo educativo: ed è quello messo in risalto negli interventi di un buon numero di vescovi e di altre personalità di rilievo sociale e pedagogico. Se il nuovo DDL diventasse legge dello Stato, si favorirebbe un nuovo costume di vita. Ai nostri giovani si aprirebbero due vie, entrambe giuridicamente riconosciute e tutelate, per perseguire il proprio progetto di vita. Una, più impegnativa e pubblica, il matrimonio. L'altra, l'unione di fatto, più leggera e privata, e dunque anche più accattivante e conveniente. Le conseguenze sarebbero devastanti, perché la nostra società, che ha bisogno di una forte coesione, quale solo la famiglia può assicurare, consentirebbe progetti di vita che aumenterebbero il tasso di precarietà e di fragilità relazionale e indebolirebbero la volontà di scelte più impegnative e più stabili, le sole che possono costruire una società più solida e coesa.
I Di.Co. finirebbero altresì per dare più valore ad una cultura dei desideri soggettivi, piuttosto che ad una cultura solidaristica, basata su rapporti stabili, ancorché impegnativi. Il che porterebbe acqua al mulino dell'individualismo e del soggettivismo, che ha già provocato tanti danni alla nostra società e che minerebbe alla radice ogni seria passione educativa. L'alternativa fra due modelli così diversi di vita familiare è socialmente distruttiva. Ebbe a scrivere qualche settimana fa mons. Monari, vescovo di Piacenza: "Se la società considera la famiglia un bene per la stessa società (e cioè concretamente un "meglio") deve evidentemente favorirla; se non la favorisce, deve sapere che ne pagherà il prezzo… Un vecchio proverbio insegnava che non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca. Traduzione: non si può volere una vita personale libera da ogni vincolo e nello stesso tempo sperare che la società sia ordinata e solidale; non si può volere la sicurezza che viene dal senso di responsabilità di ciascuno e nello stesso tempo pretendere la licenza che viene dal non volere vincolo alcuno" (Avvenire, 10 febbraio 2007).

Le dichiarazioni del magistero della Chiesa valgono ancora?

Una terza riflessione riguarda la dottrina della Chiesa: in questo caso, non tanto circa il sacramento del matrimonio, quanto circa i suoi presupposti, che affondano nel diritto naturale e dunque hanno un valore universale, anche se non sempre e non da tutti limpidamente riconosciuto. Si collegano a questa riflessione diversi pronunciamenti del magistero circa il comportamento dei politici cattolici su queste ed altre tematiche, che hanno un valore di obbligo morale per la coscienza dei cattolici. Ne citiamo, fra molti, i due seguenti.
Il primo è di papa Benedetto XVI: "La legge naturale è la sorgente da cui scaturiscono, insieme a diritti fondamentali, anche imperativi etici che è doveroso onorare. Nell'attuale etica e filosofia del Diritto, sono largamente diffusi i postulati del positivismo giuridico. La conseguenza è che la legislazione diventa spesso solo un compromesso tra diversi interessi: si cerca di trasformare in diritti interessi privati o desideri che stridono con i doveri derivanti dalla responsabilità sociale. In questa situazione è opportuno ricordare che ogni ordinamento giuridico, a livello sia interno che internazionale, trae ultimamente la sua legittimità dal radicamento nella legge naturale, nel messaggio etico iscritto nello stesso essere umano. La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l'arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica. La conoscenza di questa legge iscritta nel cuore dell'uomo aumenta con il progredire della coscienza morale. La prima preoccupazione per tutti, e particolarmente per chi ha responsabilità pubbliche, dovrebbe quindi essere quella di promuovere la maturazione della coscienza morale. E' questo il progresso fondamentale senza il quale tutti gli altri progressi finiscono per risultare non autentici. La legge iscritta nella nostra natura è la vera garanzia offerta ad ognuno per poter vivere libero e rispettato nella propria dignità. Quanto fin qui detto ha applicazioni molto concrete se si fa riferimento alla famiglia, cioè a quell'"intima comunità di vita e d'amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie" (Cost. past. Gaudium et spes, 48). Il Concilio Vaticano II ha, al riguardo, opportunamente ribadito che l'istituto del matrimonio "ha stabilità per ordinamento divino", e perciò "questo vincolo sacro, in vista del bene sia dei coniugi e della prole che della società, non dipende dall'arbitrio dell'uomo" (ibid.). Nessuna legge fatta dagli uomini può perciò sovvertire la norma scritta dal Creatore, senza che la società venga drammaticamente ferita in ciò che costituisce il suo stesso fondamento basilare. Dimenticarlo significherebbe indebolire la famiglia, penalizzare i figli e rendere precario il futuro della società" ( Al Congresso Internazione sul Diritto Naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, 11 febbraio 2007)
Il secondo è della Congregazione per la Dottrina della Fede: "La coscienza cristiana ben formata non permette a nessuno di favorire con il proprio voto l'attuazione di un programma politico o di una singola legge in cui i contenuti fondamentali della fede e della morale siano sovvertiti dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti. Poiché la fede costituisce come un'unità inscindibile, non è logico l'isolamento di uno solo dei suoi contenuti a scapito della totalità della dottrina cattolica. L'impegno politico per un aspetto isolato della dottrina sociale della Chiesa non è sufficiente ad esaurire la responsabilità per il bene comune. Né il cattolico può pensare di delegare ad altri l'impegno che gli proviene dal vangelo di Gesù Cristo perché la verità sull'uomo e sul mondo possa essere annunciata e raggiunta. Quando l'azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno, allora l'impegno dei cattolici si fa più evidente e carico di responsabilità. Dinanzi a queste esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili, infatti, i credenti devono sapere che è in gioco l'essenza dell'ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona. E' questo il caso delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia (da non confondersi con la rinuncia all'accanimento terapeutico, la quale è, anche moralmente, legittima), che devono tutelare il diritto primario alla vita a partire dal suo concepimento fino al suo termine naturale. Allo stesso modo occorre ribadire il dovere di rispettare e proteggere i diritti dell'embrione umano. Analogamente, devono essere salvaguardate la tutela e la promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso e protetta nella sua unità e stabilità, a fronte delle moderne leggi sul divorzio: ad essa non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali un riconoscimento legale (n. 4)" (Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002).


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