"Nel 50° della morte la parrocchia ricorda il suo pastore mons. Temistocle Marini"
A TUTTI I PARROCCHIANI
da "Ritrovarci": anno XXIX - numero speciale - aprile 2006

don Alberto Franzini

A TUTTI I PARROCCHIANI

Questa edizione speciale di Ritrovarci esce per il cinquantesimo della morte di mons. Temistocle Marini, avvenuta il 6 aprile 1956. Far memoria dell’abate Marini, che è stato parroco nella nostra parrocchia per un lungo periodo (dal 1921 al 1956), è doveroso: sia per rispondere ad una precisa richiesta delle sue volontà testamentarie, che chiedono ai parrocchiani di pregare per lui; sia per un obbligo di riconoscenza verso un pastore che ha amato, e a lungo, questa comunità di Casalmaggiore, spendendosi senza riserve anche e soprattutto per i più bisognosi; sia per riprendere, con rinnovato impegno, il nostro cammino di fede e di testimonianza cristiana nell’ora presente.
I tempi di mons. Marini non sono certamente i nostri tempi. Cinquant’anni sono trascorsi: ma, con la velocizzazione impressa dalle nuove situazioni, sembra trascorso più di un secolo. La società attuale è radicalmente mutata. E anche la Chiesa, che vive nel mondo, ha risentito e anche provocato - soprattutto con il Vaticano II - un cambiamento che può apparire a volte eccessivo.
Dentro a questo cambiamento, anche la figura del prete è radicalmente mutata. Il cambiamento dell’abito esterno è stato il segno di un mutamento di prospettiva: il prete, da uomo “sacrale”, è diventato un fratello e un padre che cammina - o cerca di camminare - insieme alla sua gente, condividendone gioie e tribolazioni; da uomo “rivestito di autorità”, riconosciutagli anche sul piano sociale e civile, a uomo “di comunità”, dove la sua “autorità” è più circoscritta alla vita della parrocchia, che non a quella della città, ormai abitata da persone che non appartengono più alla comunità cristiana; da uomo, la cui autorevolezza sgorgava direttamente e oggettivamente dal ruolo che gli era assegnato, a uomo la cui autorevolezza è da conquistare, metro per metro e giorno per giorno, mettendo in gioco la propria persona.
Una dimensione, però, fra le altre, rimane immutata: l’umanità del prete, la scandalosa umanità del prete, chiamato - ieri come oggi e come domani - a servire Gesù Cristo e la sua Chiesa con le sue passioni e le sue debolezze, con le sue intemperanze e le sue fragilità, con le sue coerenze e le sue incoerenze, con le sue vittorie e le sue sconfitte, con i suoi entusiasmi e i suoi sconforti. Come è successo all’apostolo Pietro, il primo Papa e, possiamo anche dire, con un po’ di inesattezza, il primo prete: che ha perfino tradito il Signore, ma che Gli ha voluto bene fino al pianto e, soprattutto, fino al martirio.
Si è sempre pronti a “sparare” sul prete, soprattutto se e quando sbaglia, soprattutto se appare “di parte” (tutti lo vorrebbero sempre dalla “propria parte”), soprattutto se non corrisponde ai nostri desideri e alle nostre aspettative. Raramente lo si aiuta nella sua missione. Raramente si condividono con lui i momenti del cammino comunitario. Raramente si chiedono a lui consigli e ancor più raramente, con carità, a lui se ne danno. Raramente ci si apre al prete per farsi guidare nel proprio cammino di fede. A lui si chiedono i “servizi religiosi”. A lui si chiede di tutto e di più. Certo, sta al prete incuneare nei bisogni concreti delle persone anche e soprattutto il “filo rosso” della fede e della Parola che salva: come ha fatto Gesù con la samaritana, la quale, avendo sete, si è vista porgere, sorprendentemente e felicemente, un’altra acqua. Ma per noi preti, che non siamo Gesù, ma solo suoi discepoli e suoi ministri, con i tempi che corrono, è una faticaccia…
Si preferisce parlar bene o parlar male dei propri preti con altre persone, piuttosto che con gli interessati: i quali, in genere, sono uomini pazienti (non sempre di fuori, ma di dentro sì: altrimenti non reggerebbero a lungo) e avvezzi alle critiche, perché abituati a rispondere, circa il proprio operato, a Uno che vede “nel cuore”, senza fermarsi alle “apparenze”. Tutto questo avviene forse perché, inconsapevolmente, si richiede al prete una perfezione, anche umana, oltre che cristiana, che non esiste in natura e che si vorrebbe e si pretende almeno trovare in lui, proprio perché così rara nella comune umanità. E invece anche il prete è fatto dello stesso lignaggio di tutti. E per fortuna, come saggiamente suggerisce la lettera agli Ebrei parlando del sommo sacerdote ebraico: proprio perché “preso fra gli uomini”, anche lui “è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza” (5, 1-2).
Ricordiamo, dunque, con riconoscenza l’abate Marini: un prete che ha sofferto anche per le sue vicende familiari, anche per il temperamento non incline alla gioia, ma che ha portato con dignità la croce del ministero grazie soprattutto alla sua fedeltà a Dio e alla sua grande magnanimità e generosità e grazie anche al suo grande amore verso la propria parrocchia, come risulta dal suo testamento.
Ricordando mons. Marini, preghiamo una volta tanto anche per i nostri preti, che ogni giorno pregano per voi e non hanno alcun altro interesse se non quello di annunciarvi l’unico Signore che davvero conta nella vita dell’uomo e di amare la Chiesa come luogo di verità e di libertà, luogo dove si impara a vivere il “mestiere umano” e dove si coltiva la speranza di un futuro grande, il futuro stesso di Dio, come hanno testimoniato i santi.

Don Alberto Franzini


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