Briciole di sapientia antica
"L'uomo e il tempo"
Anche l'uomo contemporaneo ha bisogno di interrogare la sapienza degli antichi per tentare di dare risposta agli eterni interrogativi dell'esistenza umana. Una immaginaria intervista a Seneca, filosofo stoico, vissuto nel I secolo alla corte dell'imperatore romano Nerone.
da "Ritrovarci": anno XXVII - numero 1 - febbraio 2004

di Maria Grazia Cavalca

"Oggi il tempo è volato". "Per me invece le ore non passavano mai": brandelli di conversazione colti al volo. Esempio chiaro che la dimensione 'tempo' che noi avvertiamo è altra cosa rispetto al ritmo sempre uguale scandito dall'orologio.
Ciò basta perché i miei pensieri comincino a fluire concretandosi in una molteplicità di domande sul senso del tempo e sul valore che ad esso dà l'uomo. Ma quale uomo? L'uomo in quanto tale: l'uomo di oggi, di ieri, di venti secoli fa, perché cambiano i tempi, le mode, le culture, ma le esigenze, le tensioni, gli afflati più profondi dell'animo -a ben guardare- sono sempre gli stessi.
Per questo mi viene spontaneo cercare risposte ai miei interrogativi nel passato, in particolare in colui che, a ragione, può essere definito il 'filosofo del tempo', lo stoico Seneca. Vissuto nel I secolo d.C. sotto l'impero di Nerone e, per molti anni, alla sua corte, Seneca ha affrontato il problema di come l'uomo vive il tempo, non con una speculazione sistematica ma con la concretezza dell'esperienza.
Immaginiamo quindi di interrogarlo per illuminarci al suo pensiero e dare spazio a una sapientia, di cui l'uomo moderno ha estremo bisogno per essere uomo.

Innanzitutto, quale è l'atteggiamento dell'uomo di fronte alla realtà del tempo?
Di fronte al tempo gli uomini si comportano in modo diverso: alcuni lo usano con sobrietà, altri con prodigalità; alcuni spendono il loro tempo in modo da poterne sempre rendere conto, altri invece lo sciupano così da non averne mai una briciola da presentare. Molti non comprendono che è un tesoro da custodire gelosamente e se lo lasciano portare via, o se lo fanno sfuggire, o lo perdono, addirittura, senza che se ne accorgano.

La maggior parte degli uomini si lamenta che il tempo concesso a ciascuno è poco e scorre troppo velocemente. È davvero così?
È fondamentale che ci rendiamo conto che non è il tempo a disposizione di ciascuno a essere scarso, ma siamo noi che spesso lo viviamo senza apprezzarne il valore; ce lo facciamo sfuggire, lo gestiamo con superficialità, lo perdiamo in cose inutili. Capita sovente che, quando i giorni non sono spesi per qualche buon fine, ci accorgiamo che sono passati, senza esserci accorti che stavano passando. Il valore della vita non dipende dalla sua lunghezza, ma dall'uso che se ne fa; molto spesso accade che chi è vissuto a lungo, è vissuto poco intensamente. Spesso un vecchio carico d'anni non ha altra prova con cui dimostrare di aver vissuto a lungo, se non i suoi capelli bianchi e le sue rughe: non ille diu vixit, sed diu fuit, "non ha vissuto a lungo, lui, ma è stato al mondo a lungo" (Seneca, De brevitate vitae 7,10).

Vivere, allora, cosa vuol dire?
Vivere non significa impegnarsi in attività frenetiche, darsi da fare per occupare tutti i minuti della giornata. Comportarsi in questo modo non significa dare senso all'esistenza, ma solo arrivare a sera spossati, senza stringere nulla, o ben poco, nelle proprie mani.
Vivere non significa lasciarsi dominare da rimorsi o incanti del passato, dall'ansia o dal timore del domani, perché in questo modo il tempo se ne va e nel cuore penetra la tristezza: dipendere dal passato o dal futuro è perdere l'oggi.
Vivere è disporre di ogni giorno come fosse una vita intera, ogni giorno gustato in sé: chi ogni giorno ha vissuto interamente la sua vita è sereno. Aggiustiamo ogni giorno i conti con la vita, non rinviamo mai nulla. Chi ogni giorno dà alla sua vita, si fa per dire, l'ultima mano, non sente il bisogno del tempo, perché è questo bisogno a metterci in balia di angosce e incertezze.

Quale deve essere dunque l'atteggiamento dell'uomo?
Non ci sono ricette taumaturgiche da osservare con scrupolosa attenzione. L'uomo deve farsi ricco della sua mente, del suo cuore, della sua libertà e affrontare con responsabilità e serenità la propria vita: non dimenticando il passato, non limitandosi a sopravvivere nell'oggi, non temendo il futuro. Godiamo invece delle gioie passate, perché il nostro animo non le abbia accolte come se fosse un vaso forato che lascia fuggire via quanto riceve e, d'altra parte, viviamo sereni l'attesa.
Vale a dire, dobbiamo riuscire a vivere in armonia col presente, a godere la gioia del ricordo, a nutrire una tranquilla speranza nel futuro.

Questi pensieri, umanamente pagani, riemergono in sant'Agostino, vivificati da un verticalismo trascendente, che Seneca, pagano, non poteva possedere.
Agostino si chiede se è possibile misurare il tempo e rileva che non si può misurare il futuro, che non esiste ancora; non si può misurare il presente, che non ha estensione; non si può misurare il passato, che non esiste più. A differenza del pensiero filosofico precedente (Pitagora, Platone, Aristotele, stoici ed epicurei), egli non collega il tempo al mondo fisico, bensì all'anima e all'eternità. Ascoltiamo la sua voce: "In te, anima mia, misuro il tempo, perché solo nella mente, nelle impressioni della mente, sussistono il passato, il presente, il futuro…L'animo attende, presta attenzione, ricorda: in modo che quello che attende, attraverso il suo sviluppo nel presente, passi poi nel ricordo. Chi potrebbe negare che il futuro non esiste ancora? Ma nell'animo vive l'attesa del futuro. Chi potrebbe negare che il passato non esiste più? Ma nell'animo vive la memoria del passato. Chi negherà che il tempo presente manca di estensione, perché non è che un punto transeunte? Ma dura l'attenzione attraverso la quale il futuro tende al passato…Non può esistere tempo, se non esiste creatore; si volga a te il pensiero, o Dio, creatore eterno di tutti i tempi, prima di tutti i tempi" (Agostino, Confessiones 11,27-28-30).

Maria Grazia Cavalca



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