"Identità cristiana e omologazione alla cultura dominante "

lettera inviata da don Alberto, parroco di Santo Stefano al settimanale Tempi e pubblicata dal medesimo a pag. 3 sul numero di giovedì 12 giugno 2003




6 giugno 2003


Egregio Direttore,

concordo pienamente con le riflessioni, apparse sull'ultimo numero di Tempi, nell'articolo "Gesù, che Oratorio!", firmato da Marco Simi. La cosa è più seria di quel che sembra ed investe non solo gli Oratori, ma le stesse nostre parrocchie. Ritorna, con forza ineludibile, il problema dell'identità della comunità cristiana, ossia del senso stesso della presenza della Chiesa nel mondo di oggi. Anche in casa cattolica, la tentazione di omologarci con la cultura dominante è forte. E' uno degli scogli più pericolosi, perché più sottili e nascosti, per la navigazione di noi cristiani: quello dello svigorimento della nostra fede, della annacquatura della proposta evangelica in un pensiero non cristiano. La fede cristiana diventa, così, totalmente strumentale ai progetti sociali e culturali della maggioranza, dalla quale si ha il timore di distinguersi in nome di un presunto spirito di tolleranza e di dialogo. La testimonianza cristiana perde così il suo carattere di stupore e di bellezza, assumendo l'andatura o della subordinazione alla cultura della maggioranza o dell'affanno volontaristico che si esplica unicamente nella prassi sociale. Non è un caso che oggi molti cristiani parlino quasi solo di diritti umani, di mercato equo e solidale, di solidarietà internazionale, di pace, di ecologia, di abolizione della pena di morte o di quant'altro, senza accorgersi di diventare in tal modo funzionali a chi vuol ridurre la Chiesa ad una agenzia utile per rafforzare l'etica sociale fondata sul consenso della maggioranza o a chi esalta la Chiesa solo come entità socio-assistenziale: una specie di "ambulanza" per i casi disperati, di "Croce rossa" per le vittime delle insipienze sociali dei nostri tempi. Bisogna certo prendersi cura dei drogati, curare il disagio giovanile, aiutare i figli e i genitori disorientati. Ma come? E con quali strumenti? E soprattutto con quali prospettive? La Chiesa ha sempre praticato le opere di misericordia, ma a partire da una visione cristiana della persona umana e da una esperienza forte di vita cristiana. Anche noi preti parliamo sempre meno dei temi fondamentali dell'esistenza cristiana: il Vangelo come grazia di Dio, la persona e il messaggio di Gesù Cristo, il senso del nascere e del morire, il peccato, la vita eterna, la santità, l'eucaristia, la preghiera, la comunione dei santi… Certo, è anche questione di aggiornare il nostro linguaggio. Ma spesso ci lasciamo vincere dal timore di non essere più ascoltati. E finiamo per parlare d'altro e di fare altro. Se non parliamo più di Gesù Cristo e non testimoniamo più il Vangelo noi - dico noi preti e noi comunità cristiane - chi lo farà al nostro posto? Se non c'è un luogo - la comunità cristiana - che renda visibile, ossia incarnata l'esperienza di fede, come annunciarla a tutti? C'è una parola di Gesù che è di ammonimento al riguardo: se il sale perdesse il sapore, a null'altro serve se non ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.
Credo proprio sia ridiventato urgente riflettere sulla nostra identità di discepoli del Signore: negli oratori e nella pastorale delle nostre parrocchie. Forse una delle cause dello spopolamento dei nostri ambienti, come della scristianizzazione della nostra società, non sta solo nell'illuminismo, nella rivoluzione francese, nella rivoluzione bolscevica, nei totalitarismi atei, nel secolarismo e nel consumismo: sta, più semplicemente e più tragicamente, nella paura e nella debolezza di noi cristiani di annunciare e di testimoniare, in nome di una falsa idea di tolleranza e di laicità, la singolarità e l'originalità del Verbo che si è fatto carne, unico Salvatore di tutti e di tutto.
Cordialmente

Don Alberto Franzini, parroco