IL CALO DEI MATRIMONI RELIGIOSI A CASALMAGGIORE
Un commento di don Alberto Franzini, parroco a Santo Stefano - 13 febbraio 2005




Il “sorpasso” dei matrimoni civili su quelli religiosi non è che uno dei segni, per altro non inattesi e quindi non sorprendenti, della progressiva laicizzazione e scristianizzazione da tempo in atto nella nostra società. Non è che la ricaduta “in provincia” di ciò che da anni avviene nei contesti urbani più consistenti, nelle grandi città. Fin che la tradizione – e questo vale per la tradizione in ogni ambito educativo e culturale – aveva un certo peso, una certa influenza e una certa stima, anche i gesti religiosi “tradizionali” hanno continuato ad essere celebrati in massa. Venendo meno il pressing della tradizione, ne deriva, coerentemente, anche la diminuzione dei gesti religiosi. Soprattutto da parte di coloro che non ne accolgono, non ne capiscono e quindi non ne vivono più lo spirito. Fra una generazione è prevedibile anche “in provincia” un certo calo della richiesta del battesimo per i propri figli, come sta già avvenendo nelle città.
Tutto questo ha anche una sua coerenza: che significato può mai avere un gesto religioso, qual è la celebrazione liturgica del matrimonio, in un’esistenza (personale o di coppia) che da tempo ha perso i rapporti con una viva e autentica esperienza di fede? Una cornice “religiosa” non serve a nulla, se non c’è un quadro da contenere.
A spiegare il calo numerico dei matrimoni cristiani ci può anche essere la proposta, da parte del parroco, di una sempre più seria preparazione delle coppie al sacramento del matrimonio, preparazione che, come è noto, non è richiesta per il matrimonio civile e che potrebbe scoraggiare la domanda di celebrare il matrimonio in chiesa. Forse c’è un’altra spiegazione, che va più in profondità: ossia la perdita di rilevanza di quei valori che, pur appartenendo al matrimonio “naturale”, sembrano diventati più opachi in una celebrazione civile, quali la definitività dell’impegno coniugale (“per sempre”) e la fedeltà degli sposi tra loro, ossia l’unicità del partner: definitività e unicità sempre meno valorizzate dalla predicazione massmediatica attuale, se non addirittura ridicolizzate. Sotto a questo aspetto, sarebbe interessante – ma la rilevazione diventa più difficile – quantificare anche l’accendersi annuale della cosiddette “coppie di fatto”, ossia delle libere convivenze: solo la rilevazione anche delle libere unioni, con la conseguente registrazione anche delle motivazioni che ne stanno alla radice, permette di avere un quadro esatto della situazione e di giungere a qualche riflessione più approfondita sul senso dell’amore, del matrimonio e della famiglia nella nostra società.
Direi, però, molto più radicalmente: la causa principale dell’ affievolirsi dei gesti religiosi sta nella perdita di rilevanza esistenziale e sociale della fede cristiana.
E qui il problema diventa ecclesiale e pastorale. Ci si avvia sempre più verso una situazione di minoranza sociologica dei cristiani. Ma a preoccupare i pastori della Chiesa, nonché l’intera comunità cristiana, non è tanto o semplicemente il calo numerico dei praticanti: la Chiesa, infatti, non è un ente commerciale o un supermercato, dove la finalità principale è il profitto. Il vero problema sta nella trasmissione e nella testimonianza di quella fede, qual è quella cristiana, che ha contribuito non poco alla formazione di quella identità che sta alla base della nostra storia e della nostra civiltà. Fin dalle origini, la preoccupazione degli apostoli e dei missionari del Vangelo non era tanto di arrivare a tutti, anche se c’è un preciso invito di Gesù nel Vangelo a predicare la buona notizia a tutti i popoli. Piuttosto, la preoccupazione che ha sempre guidato la predicazione della Chiesa è stata di carattere educativo: proporre a tutti una notizia che, se ben compresa e ben accolta, non può non rendere bella e carica di senso la vita umana.
E così siamo tornati alle origini, non tanto temporali, ma valoriali, dell’avventura cristiana: in che modo, nel contesto attuale - caratterizzato non solo dalla multiculturalità e dalla multireligiosità, ma soprattutto dall’indifferentismo religioso e dal relativismo laicista – ripresentare l’annuncio cristiano come annuncio di salvezza e di liberazione per l’uomo di oggi? Paradossalmente, sono proprio le presenze di altre religioni sul nostro territorio a denunciare tutto il limite di una profanità assoluta e dunque a richiamare anche la cristianità occidentale che un mondo senza Dio e senza religione non ha futuro.
Siamo decisamente in un periodo di transizione e anche di svolte: da un cristianesimo di massa, stanco, assopito e distratto, ad un cristianesimo più motivato, che necessariamente diventa oggi un cristianesimo non di élite, bensì di minoranza. Come diceva l’allora card. Ratzinger in un incontro al Senato della Repubblica Italiana nel maggio 2004, dando ragione a Toynbee, “il destino di una società dipende sempre da minoranze creative”. E così concludeva Ratzinger: “I cristiani credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza creativa e contribuire a che l’Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a servizio dell’intera umanità”.
La cura e l’educazione di tali “minoranze creative” saranno certamente all’attenzione della Chiesa nei prossimi decenni, nella consapevolezza che il sale, se vuole dare sapore, deve rimanere tale, ossia salato: altrimenti “a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini” (Matteo 5,13).