Giovanni Paolo II
Schoenborn card. Christoph

IL VERBO
INCARNATO

Icona dell’invisibile


Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2006
53

 



In questo fascicolo presentiamo due interventi.
Il primo è di Papa Giovanni Paolo II. Si tratta di un discorso pronunciato l’8 aprile 1994, durante la messa a conclusione dei restauri della Cappella Sistina in Vaticano.
Il secondo è del card. Schoenborn, arcivescovo di Vienna, tenuto al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali che si è tenuto a Rocca di Papa dal 31 maggio al 2 giugno 2006.
Sono due discorsi teologicamente ed esistenzialmente rilevanti, perché mostrano tutta la ricchezza dell’arte cristiana: la quale non è soltanto esibizione estetica, ma soprattutto rivelazione dell’invisibile Dio, esperienza di Dio nel nostro mondo attraverso il creato e soprattutto attraverso l’uomo, immagine e somiglianza di Dio.
La riflessione sulle sacre icone – che da sempre caratterizzano la storia cristiana - porta a comprendere la legittimità e la possibilità stessa di raffigurare in modo visibile Colui che é per es­senza Invisibile. Come é noto, a tale invisibilità di Dio rimangono fedeli gli ebrei e i musulmani. E anche durante i secoli dell'impero bizantino la Chiesa dovette fare i conti con l'iconoclasmo (la lotta contro le immagini) respinto solo con il II concilio di Nicea, dell'anno 787. La motivazione pro­fonda della legittimità delle immagini sacre sta nell'incarnazione del Verbo: dal momento che Dio si é fatto visibile in Cristo Gesù, é la carne stessa dell'uomo, e dunque l'intero creato di cui l'Adam é il vertice, ad essere stata resa capax Dei, capace di rappresentare il mistero stesso di Dio. Secondo la felice espressione di Paolo VI, se nella fede accogliamo che il Verbo si sia fatto carne, nell'arte è la carne stessa dell'uomo a diventare Verbo, e dunque rivelazione di Dio.
E da qui un secondo tema: la profonda dignità e bellezza del corpo umano, il suo essere luogo teologico, ossia luogo manifesta­tivo della bellezza stessa di Dio, luogo redento da Cristo e dunque chiamato alla trasfigurazione totale. C'è di che riflettere sulla sproporzione tra l'annuncio biblico sullo splendore del corpo umano e tante miopi e travisanti concezioni circolanti nella nostra pseudocultura occidentale, che fanno del corpo umano un oggetto circoscritto e circoscrivibile - dunque spazio limitato, preda di possesso e fonte di voracità - anziché il luogo rivelativo - e come tale ricco di molteplici simbolismi e carico di richiami - aperto al mistero stesso di Dio.

don Alberto Franzini


15 agosto 2006
solennità dell’Assunzione di Maria


Giovanni Paolo II

La Cappella Sistina:
“santuario della teologia del corpo umano”

1.. "Credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili".
Entriamo oggi nella Cappella Sistina per ammirarne gli affre­schi meravigliosamente restaurati. Sono opere dei più grandi maestri del Rinascimento: di Michelangelo innanzitutto, ma poi anche del Perugino, del Botticelli, del Ghirlandaio, del Pinturicchio e di altri. Alla conclusione di questi delicati interventi di restauro, desidero ringraziare tutti Voi qui presenti, e particolarmente coloro che, in vari modi, hanno dato il loro contributo a tale nobile impresa. Si tratta di un bene culturale di inestimabile valore, di un bene avente ca­rattere universale. Di ciò rendono testimonianza gli innumerevoli pellegrini che, provenendo da ogni nazione del mondo, visitano questo luogo per ammirare l'opera di sommi maestri e riconoscere in questa Cappella una sorta di mirabile sintesi dell'arte pittorica.
Appassionati cultori del bello hanno poi dato prova della loro sensibilità con il concreto e cospicuo apporto messo a disposizione per restituire alla Cappella la sua originale freschezza di colori. Si é potuto inoltre contare sull'opera di esperti particolarmente versati nell'arte del restauro, i quali hanno eseguito i loro interventi avva­lendosi delle tecnologie più avanzate e sicure. La Santa Sede espri­me a tutti il suo cordiale ringraziamento per lo splendido risultato raggiunto.

2. Gli affreschi che qui contempliamo ci introducono nel mondo dei contenuti della Rivelazione. Le verità della nostra fede ci parlano qui da ogni parte. Da esse il genio umano ha tratto la sua ispirazione, impegnandosi a rivestirle di forme di ineguagliabile bel­lezza. Ecco perché soprattutto il Giudizio Universale suscita in noi il vivo desiderio di professare la nostra fede in Dio, Creatore di tutte le cose visibili e invisibili. E, nello stesso tempo, ci stimola a ribadire la nostra adesione a Cristo risuscitato, che verrà nell'ultimo giorno quale supremo Giudice dei vivi e dei morti. Davanti a questo capolavoro noi confessiamo Cristo, Re dei secoli, il cui Regno non avrà fine.
Proprio questo Figlio eterno, a cui il Padre ha affidato la causa dell'umana redenzione, ci parla nella drammatica scena del Giudizio Universale. Siamo davanti ad un Cristo insolito. Egli possiede in sé un'antica bellezza, che in un certo senso si discosta dalle rappresen­tazioni pittoriche tradizionali. Dal grande affresco Egli ci rivela prima di tutto il mistero della sua gloria legato alla risurrezione. Es­sere raccolti qui, durante l'Ottava di Pasqua, é da ritenere circo­stanza quanto mai propizia. Siamo di fronte, innanzitutto, alla glo­ria dell'umanità di Cristo. Egli verrà infatti nella sua umanità per giudicare i vivi e i morti, penetrando le profondità delle coscienze umane e rivelando la potenza della sua redenzione. Per tale ragione, accanto a Lui troviamo la Madre, l'"Alma socia Redemptoris". Cri­sto nella storia dell'umanità é la vera pietra angolare, di cui il Salmi­sta dice: "La pietra scartata dai costruttori é divenuta testata d'an­golo" (sal 117/118, 22). Questa pietra, dunque, non può essere scartata. Unico Mediatore tra Dio e gli uomini, Cristo dalla Cappel­la Sistina esprime in se stesso l'intero mistero della visibilità dell'Invisibile.

3. Siamo così al centro della questione teologica. L'Antico Testamento escludeva qualsiasi immagine o raffigurazione dell'invi­sibile Creatore. Tale, infatti, era il comando che Mosè aveva ricevu­to da Dio sul monte Sinai (cf. Es 20, 4), poiché esisteva il pericolo che il popolo, incline all'idolatria, si fermasse nel suo culto ad un'immagine di Dio che é inimmaginabile, in quanto al di sopra di ogni immaginazione e intendimento dell'uomo. L'Antico Testamento rimase fedele a questa tradizione, non ammettendo nessuna raffigu­razione del Dio Vivo né nelle case di preghiera, né nel Tempio di Gerusalemme. Ad una simile tradizione si attengono i membri della religione musulmana, che credono in un Dio invisibile, onnipotente e misericordioso, Creatore e Giudice di ogni creatura.
Ma Dio stesso venne incontro alle esigenze dell'uomo il quale porta nel cuore l'ardente desiderio di poterlo vedere. Non accolse forse Abramo lo stesso Dio invisibile nella mirabile visita di tre mi­steriosi Personaggi? "Tres vidit et Unum adoravit" (cf. Gen 18, 1-14). Davanti a quelle tre Persone Abramo, il padre della nostra fede, sperimentò in modo profondo la presenza del Solo e dell'Unico. Questo incontri diventerà il tema dell'incomparabile icona di Andrei Rublev, culmine della pittura russa. Rublev fu uno di quei santi ar­tisti, la cui creatività era frutto di profonda contemplazione, di pre­ghiera e digiuno. Attraverso la loro opera si esprimeva la gratitu­dine dell'anima al Dio invisibile che concede all'uomo di rappre­sentarlo in modo visibile.

4. Tutto ciò fu recepito dal Secondo Concilio di Nicea, [anno 787] l'ultimo della Chiesa indivisa, che respinse in modo definitivo la posizione degli iconoclasti, confermando le legittimità della consue­tudine di esprimere la fede mediante raffigurazioni artistiche. L'icona non é allora soltanto opera di arte pittorica. Essa é, in un certo senso, come un sacramento della vita cristiana, poiché in essa si fa presente il mistero dell'Incarnazione. In essa si riflette, in modo sempre nuovo, il Mistero del Verbo fatto carne e l'uomo - autore e, nello stesso tempo, partecipe - si rallegra della visibilità dell'invisi­bile.
Non é forse stato lo stesso Cristo a porre le basi di tale spiri­tuale letizia? "Signore, mostraci il tuo volto e ci basta" - chiede Fi­lippo nel cenacolo, alla vigilia della passione di Cristo. E Gesù: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai ancora conosciuto, Filip­po? Chi ha visto me, ha visto il Padre... Non credi che io sono nel Padre e il Padre é in me?" (Gv 14, 8-10). Cristo é la visibilità dell'invisibile Dio. Per mezzo di Lui, il Padre compenetra l'intera creazione e l'invisibile Dio si fa presente tra noi e comunica con noi, così come i tre Personaggi, di cui parla la Bibbia, si sedettero a tavo­la e mangiarono con Abramo.

5. Non ha tratto forse anche Michelangelo precise conclusioni dalle parole di Cristo "Chi ha visto me ha visto il Padre?" Egli ha avuto il coraggio di ammirare con i propri occhi questo Padre nel momento in cui proferisce il fiat creatore e chiama all'esistenza il primo uomo. Adamo é stato creato ad immagine e so­miglianza di Dio (cf. Gen 1, 26). Mentre il Verbo eterno é l'icona invisibile del Padre, l'uomo-Adamo ne é l'icona visibile. Michelan­gelo si sforza in ogni modo di ridare a questa visibilità di Adamo, alla sua corporeità, i tratti dell'antica bellezza. Anzi, con grande audacia, trasferisce tale bellezza visibile e corporea allo stesso in­visibile Creatore. Siamo probabilmente davanti ad un'insolita ardi­tezza dell'arte, poiché al Dio invisibile non si può imporre la visibilità propria dell'uomo. Non sarebbe una bestemmia? E' difficile però non riconoscere nel visibile ed umanizzato Creatore il Dio rivestito di maestà infinita. Anzi, per quanto l'immagine con i suoi intrinseci limiti consente, qui si é detto tutto ciò che era dicibile. La maestà del Creatore come quella del Giudice parlano della grandezza divina: parola commovente e univoca, come, in altro modo commovente e univoca é la Pietà della Basilica Vaticana, é il Mosè nella Basilica di San Pietro in Vincoli.

6. Nell'umana espressione dei misteri divini non é forse ne­cessaria la kenosis, come consumazione di ciò che é corporale e visibile? Una tale consumazione é fortemente entrata nella tradi­zione delle icone cristiano-orientali. Il corpo é certamente la kenosis di Dio. Leggiamo infatti in san Paolo che Cristo "spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo" (Fil 2, 7). Se é vero che il corpo rappresenta la kenosis di Dio e che nella raffigurazione artistica dei misteri divini deve esprimersi la grande umiltà del corpo, affinché ciò che é divino possa manifestarsi, é anche vero che Dio é la fonte della bellezza integrale del corpo.
Sembra che Michelangelo, a suo modo, si sia lasciato guidare dalle suggestive parole del Libro della Genesi che, a riguardo della creazione dell'uomo, maschio e femmina, rileva: "Erano nudi, ma non ne provavano vergogna" (Gen 2, 25). La Cappella Sistina é proprio - se così si può dire - il santuario della teologia del corpo umano. Nel rendere testimonianza alla bellezza dell'uomo creato da Dio come maschio e femmina, essa esprime anche, in un certo modo, la speranza di un mondo trasfigurato, il mondo inaugurato dal Cristo risorto, e prima ancora dal Cristo del monte Tabor. Sap­piamo che la Trasfigurazione costituisce una delle principali fonti della devozione orientale; essa é un eloquente libro per i mistici, co­me un libro aperto é stato per San Francesco il Cristo crocifisso contemplato sul monte della Verna.
Se davanti al Giudizio Universale rimaniamo abbagliati dallo splendore e dallo spavento, ammirando da un lato i corpi glorificati e dall'altro quelli sottoposti a eterna condanna, compren­diamo anche che l'intera visione é profondamente pervasa da un'unica luce da un'unica logica artistica: la luce e la logica della fede che la Chiesa proclama confessando: "Credo in un solo Dio...creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisi­bili". Sulla base di tale logica, nell'ambito della luce che proviene da Dio, anche il corpo umano conserva il suo splendore e la sua dignità. Se lo si stacca da tale dimensione, diventa in certo modo un oggetto, che molto facilmente viene svilito, poiché soltanto dinanzi agli occhi di Dio il corpo umano può rimanere nudo e scoperto e conservare intatto il suo splendore e la sua bellezza.
7. La Cappella Sistina é il luogo che, per ogni Papa, racchiude il ricordo di un giorno particolare della sua vita. Per me, si tratta del 16 ottobre 1978. Proprio qui, in questo spazio sacro, si raccol­gono i Cardinali, aspettando la manifestazione della volontà di Cri­sto riguardo alla persona del Successore di San Pietro. Qui ho udito dalla bocca del mio rettore di un tempo Maximilien de Furstenberg le significative parole: "Magister adest et vocat te". In questo luogo il Cardinale Primate di Polonia Stefan Wyszynski mi ha detto: "Se ti eleggeranno, ti prego di non rifiutare". E qui, in spirito di obbe­dienza a Cristo e affidandomi alla sua Madre, ho accettato l'elezione scaturita dal Conclave, dichiarando al Cardinale Camerlengo Jean Villot la mia disponibilità a servire la Chiesa. Così dunque la Cappel­la Sistina ancora una volta é diventata davanti a tutta la Comunità Cattolica il luogo dell'azione dello Spirito Santo che costituisce nella Chiesa i Vescovi, costituisce in modo particolare colui che deve es­sere il Vescovo di Roma e il Successore di Pietro.
Celebrando oggi il sacrificio della Santa Messa nella stessa Cappella, nel sedicesimo anno del mio servizio alla Sede Apostolica, prego lo Spirito del Signore che non cessi di essere presente e ope­rante nella Chiesa. Lo prego perché la introduca felicemente nel terzo millennio.
Invoco Cristo, Signore della storia, perché sia con tutti noi fi­no alla fine del mondo, come Egli stesso ha promesso: "Ego vobi­scum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi" (Mt 28, 20).



Schoenborn card. Christoph

Il bello dell’essere

Comincio la nostra meditazione volgendo lo sguardo alla festa dell’Ascensione, che abbiamo appena celebrato. Agli “uomini di Galilea” che non riescono a staccare lo sguardo dalla nube che nasconde Gesù nella sua ascesa, gli angeli dicono: “Questo Gesù che è stato tra di voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11).
Oltre trent’anni fa in merito a queste parole degli angeli annotavo nel mio libro “L’icona di Cristo”: “Questa promessa di ritorno dello stesso Gesù, allo stesso modo, questa promessa affida alla Chiesa l’incarico di mantenere vivo il ricordo del suo santo volto, del volto di colui il quale, da quel momento, intercede per noi presso il suo Padre e il nostro Padre. Questa promessa la incita a professare la sua fede nella venuta ultima del Signore. Ebbene, l’icona è questa professione. E’ la via intermedia, per così dire, tra l’incarnazione e l’escatologia, perché professa la verità di entrambe. Professando a un tempo l’identità di Gesù di Nazareth , il Verbo fatto carne, e quella del suo Signore, che tornerà a giudicare i vivi e i morti, l’icona trova la sua collocazione naturale nel cuore della professione di fede della Chiesa. E’ come un suo riassunto”.
L’icona di Cristo: per molti cristiani, la tradizione orientale delle icone, dei metodi di pittura, della sua spiritualità, è diventata punto di unione e di incontro. L’icona è quasi onnipresente nella Chiesa, orientale e occidentale. La sua lingua, la sua simbologia, il suo splendore sembrano davvero toccare i cuori di molti nostri contemporanei. Spesso ci siamo domandati perché, ai nostri giorni, l’arte delle icone abbia potuto acquisire questo status di espressione privilegiata della fede cristiana. Può essere un aspetto di “moda” (che alcuni ortodossi rimproverano ai cristiani dell’occidente, perché hanno l’impressione che la loro tradizione orientale venga “utilizzata” abusivamente dagli occidentali). Penso che ci sia qualcosa di più profondo. Il “sensus fidei” riconosce nella tradizione orientale delle icone una sorta di espressione “canonica” della nostra fede, un’esperienza che va oltre le mode e i mutamenti culturali del linguaggio artistico cristiano. L’icona non è a-temporale, vive variazioni di stile, di scuole, di “colorazioni culturali”, non è statica e immobile, come spesso le è stato rimproverato. Ma qual è allora il segreto della sua attrattiva, quale la chiave di comprensione del suo mistero, e quale la ragione della sua grande stabilità espressiva?
Penso che la ragione ultima sia il mistero di Cristo stesso, Verbo fatto carne, Dio fatto uomo, divenuto “cirscocrivibile”, come piace dire ai santi difensori delle immagini, san Teodoro Studita e san Niceforo. Al di là di tutte le influenze culturali, dei legami con le tradizioni iconografiche precristiane, delle variazioni artistiche, c’è una base comune, una sorgente unica dell’arte dell’icona: il mistero del santo volto di Gesù Cristo. C’è questo volto unico, c’è questo Gesù che gli apostoli hanno conosciuto, con cui hanno mangiato e bevuto, che hanno visto trasfigurato e schernito, raggiante di gloria divina sul monte Tabor e flagellato e incoronato di spine. E’ questo volto unico, di Gesù, figlio di Maria, figlio di Dio, che si è scolpito nella memoria di Pietro. E’ lo sguardo di colui che Pietro aveva appena rinnegato, e che lo guardava in un modo che nulla al mondo ha potuto cancellare dalla memoria e dal cuore di Pietro.
Questo Gesù è il fondamento dell’icona, della sua fedeltà (di cui alcuni fanno una caratterizzazione, o meglio una caricatura, basata sull’immobilismo), della sua attrattiva immutata. L’icona attira perché è l’icona del Cristo. E’ perché noi vogliamo vedere il Cristo, che l’icona ci parla. E’ perché i fedeli (e spesso persino i non credenti) possono dire, guardando un’icona di Cristo: “E’ Gesù!” che l’icona parla a loro. Non è tanto la qualità artistica, per quanto questa sia importante e da non trascurare, perché è vera mediazione per l’incontro con Cristo, non è quindi tanto l’altezza dell’opera d’arte che conta, ma la forza della presenza di Cristo stesso a essere importante nell’arte dell’icona.
Non mi addentro qui nel dibattito sull’estetica delle icone, sull’aspetto propriamente artistico. Per questo ci sono ottimi e dotti studi. Attiro la vostra attenzione su di un fatto stupefacente, che mi aveva colpito quando studiavo la letteratura dell’VIII e IX secolo sulla controversia iconoclasta, la grande lotta pro, o contro, le immagini sacre nel cristianesimo.. In tutta la letteratura in merito, non ho trovato traccia di una disquisizione estetica. La questione della bellezza delle immagini sacre non ha praticamente alcuna importanza. Quanto meno, io non l’ho rilevata (cfr. il mio libro “L’icona di Cristo. Fondamenti teologici. Paoline, Cinisello Balsamo 1988). Come si spiega? Ne ho data una prima spiegazione in “L’icona di Cristo”: “Questa assenza di considerazioni estetiche si spiega, ci sembra, col fatto che, da una parte e dall’altra, non si è mai trattato di mettere in dubbio la legittimità dell’arte in quanto tale. Il dibattito sull’iconoclastia si reggeva esclusivamente sull’estensione dell’arte al di là del campo profano, nel campo sacro”. Gli iconoclasti ammettevano l’arte, come l’islam, ma questa doveva limitarsi strettamente al campo profano. L’iconoclastia era, in un certo senso, una secolarizzazione radicale dell’arte, una desacralizzazione dell’attività artistica ridotta a puro ornamento, a decoro della vita profana. Ma dietro questo rifiuto di un qualsivoglia carattere sacro dell’arte, c’è qualcosa di più della secolarizzazione dell’attività artistica. C’è una certa concezione di quanto è “cristiano” e quindi di quanto è mistero di Cristo. E’ significativo, da questo punto di vista, constatare che tutto il dibattito per giustificare l’arte cristiana, le immagini sacre di Cristo e dei suoi santi, è ruotato intorno al mistero di Cristo. Sono rimasto colpito, studiando la controversia sulle immagini, dalla chiarezza con cui i difensori delle immagini hanno visto in questo dibattito non tanto una questione estetica, quanto soprattutto cristologica. I padri del II Concilio di Nicea (787) ne erano ben coscienti. Per loro, affermare la legittimità dell’icona di Cristo significava apporre un sigillo sulla professione della sua divinità (Nicea I) e della sua umanità divina (Calcedonia). La Chiesa ortodossa celebra la vittoria definitiva dei difensori delle immagini nell’843 in una celebrazione liturgica la prima domenica di quaresima di ogni anno come il “trionfo dell’ortodossia”. L’icona di Cristo come riassunto della fede cristiana! Può sembrare esagerato. Guardando più da vicino non lo è per nulla. Permettetemi di dire brevemente perché, e di farlo in due fasi.

Un nuovo sguardo
Alla fine dei miei studi sui fondamenti teologici dell’icona di Cristo, sono pervenuto a questa conclusione: “C’è una correlazione tra la visione del mistero divino-umano di Cristo e la concezione dell’arte. In realtà, l’incarnazione non ha solo trasformato la conoscenza di Dio, ma ha anche modificato lo sguardo dell’uomo sul mondo, su se stesso e sulle sue attività nel mondo. Da allora, l’attività creativa degli artisti non poteva non essere toccata, trasformata dall’attrattiva del mistero dell’incarnazione. Se Cristo è venuto per rinnovare tutto, per ricrearlo secondo questa immagine di cui lui stesso era modello, non era forse necessario che lo sguardo, la sensibilità, la creatività degli artisti venissero, essi stessi, ricreati a immagine di colui ‘per mezzo del quale tutto è stato creato?’ Visto alla luce di questo giorno, lo sforzo di relegare l’arte nel ‘profano’ non può non sembrare una crisi profonda della visione teocentrica del mondo e dell’uomo” (op. cit.).
Esiste una possibilità di verificare questa tesi, che è di crescente attualità: il rapporto dell’islam con l’arte sacra. Non sono assolutamente uno specialista di questa materia, ma mi baso su studi competenti. Se l’islam rifiuta, in genere, l’immagine antropomorfa e lascia spazio solo agli ornamenti e soprattutto alla scrittura, questo non è in primis il risultato di una teoria artistica ed estetica, ma piuttosto la conseguenza diretta della sua visione del Dio unico, che non trova alcuna somiglianza in questo mondo, che niente può rappresentare, raffigurare e nemmeno, in un certo senso, simbolizzare. Mi ha colpito, durante il mio viaggio in Iran (2001), l’insistenza con cui mi hanno spiegato che non dovevo parlare dall’uomo come immagine di Dio. Ciò che per la fede giudaico-cristiana è un’evidenza, confermata intensamente dal mistero dell’incarnazione, ovvero che l’uomo è veramente “ad imaginem et similitudinem” del suo Creatore, viene rifiutato fermamente dall’islam. Dio è unico e senza simili: la Surat al-Tahwid (Corano, CXII) che tutti i musulmani pronunciano ogni giorno, dice: “Dì: è Dio, l’Uno, l’Unico. Non ha generato, non è stato generato. Non ha pari”.
Non c’è dunque alcuna rappresentazione di Dio nel mondo. L’aniconismo dell’islam non è in primo luogo una teoria estetica. E’ una conseguenza della religione islamica, per cui esiste un Dio che niente può rappresentare. Solo la luce, nella moschea, il nikrab, sarebbe, secondo i sapienti, un’evocazione metaforica del divino. E la luce è appunto priva di forma e di figura.
E’ diverso per la fede cristiana. Poiché il Creatore parla attraverso la sua creatura, le tracce del divino sono “leggibili”, certo non senza difficoltà, ma realmente. E’ soprattutto l’uomo, vero luogotenente di Dio nella sua creazione, fatto a immagine di Dio. La sua opera parla di Lui, soprattutto l’uomo. Il divieto delle immagini nell’antica alleanza ha un senso più pedagogico che ontologico. Poiché il cuore dell’uomo è una fabbrica di idoli, era necessario estirpare tutte le tentazioni di idolatria. Ma fondamentalmente, Dio si fa conoscere attraverso le sue opere. E’ la porta di ingresso dell’arte sacra.
Il mistero divino-umano di Cristo approfondisce questo ordine della creazione, gli dà la statura definitiva. C’è davvero un volto umano, “l’icona del Dio invisibile” (Col 1,15). Poiché il Verbo si è fatto carne, poiché il Cristo, dalla condizione divina, è passato alla condizione di schiavo, e ha fatto sua la nostra umanità concreta, le realtà umane, le cose di questo mondo sono diventate luogo della sua presenza, capaci di essere sua espressione, sua traccia, suo linguaggio.
Per me, le tele del Caravaggio sono una manifestazione eccezionalmente densa di questo fondamento “divino-umano” dell’arte che si è sviluppato sul suolo cristiano. La “Madonna dei pellegrini” di Sant’Agostino a Roma ne è per me un esempio soprendente. I pellegrini inginocchiati, a piedi nudi e pieni di povere davanti a questa matrona con un bambino già troppo grande per essere tenuto tra le braccia di sua madre: tutto respira un realismo “carnale” (come direbbe Peguy) che potrebbe scioccare (e che ha scioccato) perché sembra mancare del senso e della dimensione del sacro. E però è proprio questo realismo dell’incarnazione che permette di avvicinarsi al Santo, a Cristo e a sua Madre in questo modo, tanto vicino alla terra.
La fede cristiana nell’incarnazione rappresenta la fonte di un’arte che si tuffa con tanta attenzione sulle cose della terra. Oso pensare che il grande sviluppo dell’arte, sacra e profana, in terra cristiana si ispiri (senza negare altre fonti) innanzitutto a questo sì inaudito alla terra, che è l’incarnazione del Figlio di Dio. Questo sì al concreto, alla materia, al mondo visibile sta alla base di questa creatività esplosiva sperimentata dall’arte occidentale.

Cristo è la Bellezza
Oso andare ancora un po’ più in là. Noi conosciamo l’insegnamento classico sui “trascendentali”, il vero, il buono, il bello. Tutti questi attributi non sono esterni a Dio. Sono Dio stesso. Egli è la Verità e il Bene, egli è Amore, egli è Bellezza. Verità e Bontà, Amore e Bellezza sono, come dicono gli scolastici, convertibili e coincidenti con l’Essere stesso di Dio. Ogni cosa bella creata partecipa della bellezza infinita dell’essere di Dio. Se questo è vero, bisogna fare un altro passo ancora e dire che il Verbo, facendosi carne, ha per così dire “incarnato” la bontà e l’amore, la verità e la bellezza infinite di Dio. Cristo è “il più bello tra i figli dell’uomo” (cf. salmo 44,3), non per le sue qualità estetiche particolari, ma perché egli è la bellezza incarnata di Dio. Tutto il suo essere è amore e verità, bontà e bellezza.
Se quindi è vero che Cristo può dire di se stesso: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”, può altresì dire: “Io sono la Bellezza”. Cristo può dire di se stesso ciò che solo Dio può dire: “Io sono”. L’Essere, il Vero e il Bene sono, secondo i termini degli scolastici, “convertibili”. Se Cristo è la Verità e la Bontà, è anche ciò che è loro splendore: la Bellezza, Splendor Veritatis, Splendor Boni.
Per riassumere questo secondo passo della nostra riflessione direi, modificando un’espressione di Sant’Ireneo, che “Cristo, nella sua incarnazione, ha portato con sé tutte le cose belle. E’ lui la misura della Bellezza, è lui che porta, con la sua venuta, un nuovo sguardo sulla bellezza”. E’ per così dire ‘il canone della Bellezza’. Non ha solo ristabilito la bellezza originale della creazione, perduta e profanata a causa del peccato e del male; egli ha portato nella sua stessa persona, la fonte di ogni bellezza. Da lui si spandono nel mondo le acque vive della bellezza. E tutte le bellezze del mondo, che siano bellezze della natura, della virtù o dell’arte, sono irraggiamento della sua Bellezza. “Tu sei il più bello tra gli uomini”: queste parole del salmo, letto come un annuncio di Cristo, non vogliono dire che Gesù sarebbe, secondo criteri prestabiliti da un’estetica mondana, il modello più perfetto della bellezza. “Tu sei sorgente di ogni bellezza umana”. In te ci è rivelato cos’è la bellezza, e da te noi riceviamo lo sguardo per vederla, i criteri per discernerla, e la forza per imitarla e spanderla.
Dobbiamo quindi guardare e contemplare Cristo, sorgente della Bellezza divina, reso accessibile dalla sua incarnazione. Oso proporvi una convinzione che è un’intuizione che credo si verifichi in mille modi: “Dov’è Cristo, lì c’è la bellezza”. Dove i cuori, gli spiriti, le vite si aprono a Cristo, lì gli argini della bellezza si aprono e riversano come flutti vivificanti su un mondo avvilito dal peccato, sfigurato dalle brutture del male. Da 2000 anni tutto questo accade, e penso che tutto il senso del nostro ritrovo preparatorio all’incontro della Pentecoste abbia questo senso: guardare come i semi di bellezza seminati da Cristo crescono e portano frutto.
Dovremo innanzitutto dedicarci a quel che è il più bel frutto della Bellezza di Cristo: la santità. Non ci sono prove più forti della verità e della bontà divino-umana di Cristo di questa via lattea, questa nube luminosa degli innumerevoli santi che Cristo ha condotto a seguire il suo cammino. Non c’è niente di più bello al mondo della santità. Dei santi si può dire quello che la Lettera agli Ebrei dice di Cristo: sono come “irradiazione della sua gloria” (1,3). Penso che basti dirlo per arrendersi all’evidenza.
A più riprese il cardinale Ratzinger, grande amico e conoscitore della tradizione francescana, ha attirato l’attenzione su questo fatto impressionante: il Poverello d’Assisi, cercando semplicemente di seguire il Cristo povero e umiliato, ha causato non solo la nascita di un grande movimento spirituale nella Chiesa. Egli ha anche dato il là a una scia luminosa di bellezza artistica. Giotto, Cimabue, per citare solo due nomi, rappresentano una vera esplosione della creatività artistica che costituisce, ancora ai giorni nostri, il più grande tesoro artistico d’Europa e, oso dire, del mondo. Cristo, suscitando col suo Spirito tanta santità, è anche fonte viva di tanta bellezza artistica. Come chiudere gli occhi davanti a questa evidenza?
Nel suo testo “Fratello del nostro Dio” sul santo frate Alberto, Karol Wojtyla, il venerato Papa Giovanni Paolo II, parla di “quest’altra bellezza, quella della misericordia”. Come non vedere questa evidenza: Cristo ha donato al mondo “quest’altra bellezza, quella della misericordia”? Cosa sarebbe il nostro mondo senza la realtà della misericordia? Poiché noi tutti ne viviamo, consapevolmente o inconsapevolmente, rischiamo di non vedere più in che misura la bellezza della misericordia risplende nel nostro mondo di durezza e di disumanità, a partire da quel focolare inestinguibile che è il cuore di Gesù.
Basti qui, per il seguito dei nostri lavori, aver indicato queste tre vie luminose della bellezza di Cristo: la santità, l’arte che vi è ispirata e la misericordia che essa irradia.
Per concludere vi consiglio innanzitutto un testo di sant’Agostino, che così commentava il salmo 44, versetto 3: “Tu sei bello, il più bello tra i figli degli uomini”. Ci sono altri passaggi che potremmo citare, soprattutto il forte testo col commento di Sant’Agostino alla prima lettera di San Giovanni, quando parla dei due testi biblici apparentemente contraddittori, il salmo 44, che abbiamo appena citato, e il quanto Canto del Servo che “era senza bellezza né splendore per attirare i nostri sguardi, senza un aspetto seducente, oggetto di disprezzo e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore…” (Is 53,2-3). Il Papa li ha commentati in modo mirabile in un messaggio al Meeting di Rimini nel 2002. Ci sarebbero tanti altri testi dei Padri sul contrasto tra questi due oracoli profetici, ci basti qui citare quello delle “Enarrationes in Psalmo 44” di sant’Agostino: “Anche allora, se vorrai considerare la misericordia che ha fatto che si incarnasse, egli è bello”.