GIUSEPPE DE ROSA S.I.

 

IL RELATIVISMO MODERNO

Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2005
51

 


Il presente Fascicolo riporta un’articolo di Giuseppe De Rosa, apparso sulla prestigiosa rivista quindicinale dei gesuiti La Civiltà Cattolica, del 17 settembre scorso.
L’articolo spiega, anzitutto, che cos’è il relativismo moderno in campo gnoseologico, etico e giuridico: in campo gnoseologico, esso nega che ci sia o possa esserci una verità oggettiva e afferma che la verità è sempre soggettiva; in campo etico nega che ci siano leggi e valori morali sempre validi; in campo giuridico afferma che le leggi hanno valore e forza obbligante non perché siano conformi ai principi universali della legge naturale, ma perché sono emanate dal legittimo legislatore.
L’articolo osserva poi che alla base del relativismo moderno ci sono la filosofia dell’immanenza, lo storicismo, lo scientismo, lo scetticismo, il pragmatismo e l’utilitarismo.
Infine spiega che cos’è il fondamentalismo e afferma che la Chiesa cattolica non è fondamentalista, ma combatte il relativismo per la difesa della persona umana.
Non si è ancora spento l’eco dell’omelia pronunciata nella basilica di San Pietro a Roma dal card. Ratzinger il 18 aprile di quest’anno, a poche ore dall’apertura del conclave che lo avrebbe eletto Papa il giorno dopo, con il nome di Benedetto XVI. In quell’omelia, il futuro Papa aveva coraggiosamente denunciato le principali correnti ideologiche e mode del pensiero del nostro tempo, che finivano per rendere agitate le onde dove si trova a navigare la barca della Chiesa e dell’umanità: dal marxismo al liberalismo, dal collettivismo all’individualismo radicale, dall’ateismo ad un vago misticismo religioso, dall’agnosticismo al sincretismo, fino al relativismo, definito dal card. Ratzinger come “il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina”: “Si va costituendo – è l’affermazioni più celebre di quell’omelia, che aveva suscitato anche tante reazioni sui giornali di quei giorni – una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.
Siamo tutti, in qualche modo, immersi e segnati da questa dittatura: nel nostro modo di pensare, di vivere, di giudicare la realtà, di proporre soluzioni. Non ciò che è indubitabilmente vero, non ciò che è inestirpabilmente giusto, non ciò che è oggettivamente buono, ma ciò che appare utile, immediatamente piacevole e soggettivamente vantaggioso: questo è oggi il criterio dominante e la “filosofia” del nostro tempo, sbandierati dai mezzi della comunicazione sociale, fatti propri dai maitre-à-penser che vanno per la maggiore e perfino ispiratori di non poca attività legislativa dei nostri Parlamenti occidentali.
Ma che cos’è questo relativismo? Quali sono le articolazioni fondamentali di questo morbo così sottilmente diffuso, e nei confronti del quale quasi più nessuno – se non la Chiesa cattolica e un drappello di “laici devoti” – sembra preoccuparsi più di tanto? L’articolo di Giuseppe De Rosa risponde egregiamente a questi interrogativi.
A nessuno oggi, cristiano o non cristiano, è impedito il diritto e anche il dovere di informarsi sui fenomeni del proprio tempo. L’ignoranza non è mai stata un privilegio: e le nostre parrocchie devono tornare ad essere luoghi vivi di pensiero e di scambio anche culturale, se si vuole ridare alla testimonianza dei cristiani quella passione anche civile che sembra essere sempre più rara nella società odierna, ammalata di stanchezza e povera di speranza.

Don Alberto Franzini

Casalmaggiore, 4 novembre 2005
memoria di San Carlo Borromeo.


Nell’introduzione a Relativismo e fondamentalismo G.P. Prandstraller rileva che “nella parte terminale del Novecento si è manifestato, nelle aree più avanzate, un fenomeno di grande rilievo culturale: l’avvento del relativismo come costume sociale, fatto pratico, mentalità […]. Dal punto di vista filosofico, il relativismo è quella corrente di pensiero secondo cui la conoscenza umana non può penetrare la realtà in sé, come assoluto, ma deve accontentarsi di afferrare, della realtà, solo aspetti parziali, particolari, contingenti e reciprocamente condizionati: essa riconosce inoltre l’azione condizionante del soggetto sui suoi oggetti di conoscenza, facendo proprio il detto di Pitagora ‘l’uomo è misura di tutte le cose’ “.
Col termine “relativismo” qui indichiamo due cose. Anzitutto un’ideologia in forza della quale si afferma che non esiste nulla che abbia carattere di assolutezza e di immutabilità, ma che tutto sia “relativo” al tempo, ai luoghi, alle persone nelle concrete situazioni in cui si trovano. Così, in campo gnoseologico, non si può parlare di verità e di errore o di falsità, validi universalmente, cioè per tutti i tempi, tutti i luoghi, tutte le epoche e tutte le circostanze; in campo etico, non si può parlare di bene e di male in senso assoluto, per cui alcuni atti sono sempre buoni e sempre da farsi e altri atti sono sempre cattivi e quindi sempre da evitarsi.
Oltre che un’ideologia, col termine “relativismo” si indica una prassi, cioè un comportamento pratico che non tiene in nessun conto principi e norme morali fondati sulla natura umana e quindi sulla legge naturale, vale a dire in ultima analisi su Dio e sulla legge divina, quale appare sia dall’esercizio della ragione umana, sia da una rivelazione divina. In concreto, il relativismo nega ogni validità alla morale naturale-razionale e ad ogni norma morale di origine e di natura religiosa. Ogni richiamo ad una legge morale divina, e dunque trascendente, è visto dal relativismo come una forma di fondamentalismo, nel senso che si attribuisce a Dio e alla religione la funzione di dare “senso” alla vita umana e al mondo.
“Il fondamentalismo monoteistico, in quanto assertore di una spiegazione unitaria ed esclusiva della realtà – afferma Prandstraller -, viene a trovarsi in posizione conflittuale rispetto a qualsiasi visione pluralista della realtà e della società, in generale a tutte le dottrine che rimettono a fonti diverse e molteplici la spiegazione del mondo e della vita umana. La posizione culturale relativista rappresenta un’antinomia cognitiva ed esistenziale rispetto al fondamentalismo, dato che il relativismo nega l’Assoluto, cioè l’esistenza di entità-verità capaci di risolvere in sé tutta la realtà, esistenza che è invece alla base del credo fondamentalista”.
In realtà, “se il fondamentalismo viene considerato come una matrice di senso, appare in piena luce la sua dissonanza rispetto ai sistemi sociali nei quali gli individui non ricavano il proprio senso da quella connessione o rifiutano addirittura di ripetere il senso della vita da qualche principio trascendente, avendo imparato a darsela da soli […]. Il massimo punto di frizione intellettuale tra il fondamentalismo e la modernità (delle società complesse) non sa che farsene dell’offerta unitaria di senso avanzata dal fondamentalismo, ossia negligé quella forma di ‘salvezza’ che la mentalità fondamentalista considera come lo scopo supremo di ogni società. Quando prevale, tra gli uomini che costituiscono una società, l’idea che ciascuno deve preoccuparsi del proprio senso, dato che la vita non ha alcun senso derivato da una realtà trascendente, la proposta fondamentalista manifesta, per loro, il più alto grado di anacronismo e di estraneità”.


La “dittatura” del relativismo

In tutti i settori della cultura e della vita contemporanea il relativismo è il “pensiero dominante” fino al punto da esercitare sul pensiero di oggi una specie di “dittatura”. Così, nel campo della filosofia, si nega ogni valore al “pensiero forte”, cioè alla metafisica e, invece, si enfatizza il “pensiero debole”, scettico e nichilista, affermando che l’intelletto umano può attingere soltanto quello che è empiricamente attingibile (Hume-Kant) e scientificamente verificabile, per cui termini come Dio, la verità , il bene, lo spirito sono parole “senza senso” che non dicono nulla, perché le realtà che con tali termini si designano non sono né empiricamente attingibili né scientificamente verificabili. Di tali realtà “metafisiche”, cioè, non è possibile parlare “sensatamente”, e perciò di esse la filosofia deve tacere, secondo la raccomandazione di L. Wittgenstein: “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.


Il relativismo gnoseologico

In particolare, nel campo della conoscenza intellettuale, si nega che ci sia o ci possa essere una verità oggettiva, perché la mente umana conosce la realtà non come è in se stessa, ma come è percepita da essa nella sua attività conoscitiva. Questa si svolge secondo propri schemi e proprie regole, cosicché la realtà conosciuta non è la realtà oggettiva o la realtà “in sé”, ma è la realtà qual è percepita dal soggetto conoscente. Ciò significa che la verità non è – come per il pensiero antico (Platone e Aristotele) e medievale (san Tommaso e la Scolastica) – la “conformità dell’intelligenza alla realtà qual è in se stessa” (adaequatio intellectus et rei), ma al contraio è la “conformità della realtà alla mente, al soggetto conoscente”. In altre parole, non è l’intelletto che si adegua alla realtà in sé, all’oggetto (verità oggettiva), ma è la realtà che si adegua alla mente, al soggetto (verità soggettiva). Non è la realtà che si rivela alla mente e da questa è accolta e interiorizzata, ma è l’intelligenza che pensa la realtà e la coglie secondo le leggi che regolano il proprio atto conoscitivo.
E’ “reale” quindi quello che è pensato e nella forma in cui è pensato; non è pensato quello che è reale. Per tale motivo, l’intelletto umano “crea” e “modella” la realtà, nel senso che le dà la propria forma e la propria impronta; ma non si adegua ad essa. L’uomo – siamo qui nel cuore della filosofia moderna – è essenzialmente un essere “pensante” (Ego cogito cartesiano e Ich denke della filosofia trascendentale tedesca), per cui è reale quello che egli pensa e nella maniera e forma in cui lo pensa; non è reale quello che l’uomo non pensa o che la sua ragione non può pensare, in quanto è ad essa superiore, come sono, ad esempio, i “misteri” rivelati. “Il razionale è reale e il reale è razionale” afferma Hegel, includendo tutta la realtà nella razionalità umana, cosicché non è reale quello che la ragione non pensa o non può pensare.
La verità è dunque qual è pensata dall’intelligenza umana. Essa è quindi sempre “soggettiva”. Ma l’intelligenza umana non è unica per tutti gli uomini, e i modi di pensare e di ragionare cambiamo secondo i luoghi e i tempi. Perciò la verità non è una sola, ma le verità sono molte, diverse e contraddittorie; inoltre gli uomini vivono in tempi, in luoghi, in culture differenti, in momenti storici e in condizioni culturali e sociali diverse. Perciò, sotto l’aspetto cognitivo, il relativismo è segnato dal soggettivismo e dall’individualismo: ognuno ha la propria verità.


Il relativismo etico

Nel campo etico, il relativismo nega che ci siano leggi, norme e valori morali validi sempre, in ogni luogo e in ogni tempo: norme morali, quindi, che abbiano validità assoluta e non siano soggette a cambiamenti a motivo delle diversità dei luoghi e dell’evolversi storico delle culture e dei costumi; valori etici che siano validi in ogni tempo e in ogni luogo, pur nell’evolversi delle culture.
Il relativismo afferma, invece, che le norme morali, i valori etici non hanno carattere di assolutezza e di immutabilità, ma sono “relativi” all’evoluzione storica delle idee e delle culture: cioè, possono cambiare e anche perdere ogni validità col mutare dei tempi e delle condizioni di vita; col mutare delle idee e dei modi di comprendere il senso e il fine della vita umana; con le nuove acquisizioni scientifiche e tecniche, capaci di aprire vie nuove al progresso umano, di migliorare la vita fisica e psichica delle persone e di rispondere ai bisogni sempre crescenti delle moderne società complesse, che non possono vivere secondo le norme morali adatte alle società agricole del passato. Così le vecchie norme morali e i vecchi valori etici possono, anzi oggi devono, essere sostituiti da nuove norme morali e da nuovi codici a valori etici, alternativi ad essi e anche contraddittori.
In altre parole, le norme morali e i valori etici non hanno un fondamento oggettivo e una base stabile, e perciò non soggetta al variare dei tempi, dei luoghi, delle culture e dei modi di sentire e di pensare, ma sono “relativi”, cioè sono quelli che le persone e le società liberamente si danno in piena autonomia. Per il relativismo etico esistono soltanto “opinioni” soggettive, non “verità” né “certezze” obiettive., e dunque tali da imporsi a tutti. Esso mette in primo piano la libertà umana, come ciò che propriamente costituisce l’uomo, per cui questi non è legato da nessuna norma morale che a lui si imponga dall’esterno del proprio io – ad esempio, da Dio e dalla Chiesa – ma è “libero” di fare quello che vuole, con l’unico limite di non fare danno agli altri e di non impedire agli altri di fare quello che essi vogliono o ritengono necessario e utile al proprio benessere o al libero svolgimento della propria attività.


Il relativismo giuridico

In campo giuridico, il relativismo si manifesta anzitutto nel fatto che le leggi hanno valore morale e forza obbligante non perché si conformano alle norme morali e a quello che è oggettivamente buono e giusto, ma perché sono emanate dal legittimo legislatore (positivismo giuridico); si manifesta poi nel fatto che le leggi non sono specificazioni e traduzioni particolari della legge naturale universale, compiute dal legislatore legittimo, ma sono espressioni della volontà del potere legislativo, detenuto sia da una singola persona, come avviene nei regimi assoluti, sia da più persone, come avviene nei regimi democratici, in cui il popolo delega alcune persone a legiferare secondo la propria volontà, tenendo conto della conformità delle leggi non ai principi morali, ma alla volontà del popolo o, nei casi di diversità di opinioni, della sua maggioranza.


L’assolutizzazione dell’essere umano

Se ora ci chiediamo che cos’è il relativismo nella sua essenza profonda, dobbiamo rispondere che esso non è – come potrebbe sembrare – la “fine degli assoluti”, ma è l’assolutizzazione dell’uomo, e in tal modo all’Assoluto divino è sostituito l’Assoluto umano: l’”uomo-dio”. Nella visione relativista, un Assoluto c’è, ma non è più Dio, bensì l’uomo.
Ma l’uomo è un essere “storico”: non solo cioè vive in un mondo che cambia continuamente e in una storia perennemente in movimento verso traguardi che, nonostante errori e sbandate, sono in continuo e incessante progresso, ma egli stesso è in perenne cambiamento, poiché le condizioni storiche, sia culturali, sia ambientali e sia climatiche, agiscono sulla sua psiche e determinano i suoi modi di pensare e di vedere se stesso, la sua storia passata, il suo presente e il suo avvenire. Così l’uomo adegua i suoi criteri di verità e di moralità alle mutate circostanze storiche e alle sue acquisizioni in campo scientifico e culturale. In tal modo la verità e il bene non sono principi assoluti, ma “storici”, e dunque cambiano con il divenire storico, che è un carattere essenziale dell’essere umano.
Ma un carattere ancora più essenziale della stessa “storicità” è nell’uomo la “libertà”, intesa non solo come “capacità” di determinare il proprio destino e quello del mondo, e di dare autonomamente un “senso” alla propria vita, ma come “necessità” di essere se stesso, di non dipendere da nessuno, di pensare quello che si crede e di fare quello che si vuole, e quindi ritenere vero e giusto quello che si pensa (“Io la penso così”) e di poter fare quello che si vuole (“Io voglio fare così”). Non si nega agli altri l’uguale diritto di pensare e di volere diversamente: perciò si rispettano gli altri, in quanto portatori della “loro” verità, che può essere contraria alla mia, ma è sempre una verità che ha diritto di esistere quanto la mia, perché la verità non è oggettiva, ma è sempre soggettiva, cioè “libera” creazione dell’uomo nella sua individualità.


La filosofia dell’immanenza

Che cosa c’è alla radice del relativismo moderno?
In primo luogo c’è la filosofia dell’immanenza, secondo la quale tutto è “immanente” all’uomo, alla sua storia e al suo mondo e nulla esiste che “trascenda” l’uomo e il mondo: non esiste quindi Dio, come creatore dell’uomo e dell’universo e come autore di una legge morale, che l’uomo può conoscere con la sua ragione e alla quale egli deve conformare la sua azione per il suo bene, essendo la legge morale divina ciò che lo fa essere uomo nella pienezza del suo essere. Infatti, la legge divina è la legge stessa dell’uomo, non una legge che si impone a lui dall’esterno, rendendolo servo.
La filosofia dell’immanenza, negando l’esistenza di Dio di Dio Creatore e Legislatore, nega che nel campo del pensare ci sia una verità trascendente e assoluta alla quale l’intelligenza umana debba adeguarsi e, nel campo dell’agire, nega che ci sia un bene assoluto a cui si debba aderire con la volontà e tradurlo nella pratica della vita. Afferma invece che l’uomo nel conoscere non esce fuori di sé, ma ogni conoscenza è una “rappresentazione mentale” immanente e dunque soggettiva, in quanto non è determinata dall’oggetto del conoscere, ma è “primaria” rispetto ad esso e ad esso impone le sue leggi. Afferma, inoltre, che, nel campo dell’agire morale, è l’uomo che nella sua sovrana indipendenza determina i beni da perseguire e i valori da attuare, essendo egli arbitro e misura ultima del bene e del male, di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto: l’uomo in quanto singolo per quanto riguarda la sua vita e la sua attività di privato cittadino, e l’uomo come facente parte di una comunità politica, di un popolo, per quanto riguarda il bene comune della comunità stessa.
Il relativismo moderno è dunque radicalmente secolarista e ateo: vede anzi in Dio il suo nemico e nella religione – soprattutto nella religione e nella morale cattoliche – l’avversario contro cui lottare, perché, a suo parere, Dio rende “schiavo” l’uomo e la morale cattolica lo rende “infelice”.


Lo storicismo

In secondo luogo, alla base del relativismo moderno c’è lo storicismo, cioè la teoria secondo la quale tutto è “storico”, vale a dire provvisorio e mutevole, soggetto a cambiamenti, cosicché quello che era ieri in una certa maniera oggi non lo è più, quello che valeva ieri oggi non ha più valore: nella storia umana non c’è nulla di assoluto e di sempre valevole, ma tutto muta, in quanto è relativo ai luoghi, ai tempi e alle sempre mutevoli circostanze della storia umana. Perciò le idee, i modi di pensare, i sentimenti, i principi morali sono in perenne mutamento, per cui quello che è vero, buono e giusto in un periodo storico, in una civiltà, non è più vero, buono e giusto in un altro periodo storico e in un’altra civiltà. La verità è filia temporis (figlia del tempo).
L’antropologia culturale mostra infatti l’immensa varietà delle idee, delle tradizioni religiose, dei costumi, delle norme morali, dei modi di sentire, di pensare e di ragionare che si sono avvicendati nella storia umana, ognuno dei quali ha avuto e ha una propria validità. Nella visione storicista, nessuna cultura, nessuna morale e nessuna religione può arrogarsi il diritto di credersi migliore delle altre o ad esse superiore e tanto meno di credersi l’unica totalmente vera. Tutte hanno uguale diritto di cittadinanza e uguale diritto di farsi valere, di fare propaganda e proselitismo a loro favore; tutte hanno uguale legittimità. Ogni pretesa di ritenersi più vera, anzi l’unica vera, sarebbe tacciata di “fondamentalismo religioso” o d’”imperialismo culturale”, e quindi di poca stima, anzi di dispetto borioso di altre culture, religioni e morali: un giudizio negativo non giustificato, perché tutte le religioni e tutte le culture sono prodotti “storici” e dunque “relativi” ai tempi e ai luoghi e alle circostanze culturali e politiche in cui sono nate; di conseguenza “buone” per il tempo, i luoghi e le circostanze in cui si sono sviluppate, ma non per tempi e culture diverse, perché ogni periodo storico ha la sua religione, la sua morale che è adatta ad esso, ma soltanto ad esso. In tal modo lo storicismo giustifica e fonda il relativismo: ogni cosa è buona e valida per il ‘suo’ tempo, ma non per tempi, luoghi e culture diversi.


Il progresso “inarrestabile”

In terzo luogo, alla base del relativismo moderno, c’è l’idea del progresso inarrestabile: nonostante tutte le difficoltà che l’umanità incontra sul suo cammino e tutti gli insuccessi cui va incontro, essa è in continuo progresso; ne è prova, in campo biologico la teoria dell’evoluzione di H. Spencer e di Ch Darwin; in campo culturale, l’uscita dell’umanità dalle “tenebre” del Medioevo e il faticoso approdo al secolo dei “Lumi”; in campo politico, il passaggio dai regimi assoluti dell’ancien régime ai regimi democratici, che sono riusciti a trionfare anche sui regimi totalitari del secolo XX.
Ma il motore del progresso dell’umanità negli ultimi due secoli è stata la scienza, uscita con fatica dalla gabbia della filosofia scolastica e della teologia cattolica. Si è visto infatti che gli immensi e sempre più stupefacenti progressi della scienza e della tecnica in tutti i campi hanno assicurato – e possono farlo ancora di più nel futuro – all’umanità un crescente benessere. A condizione che la ricerca scientifica sia lasciata assolutamente libera e non le sia impedita di compiere gli esperimenti anche più audaci (che un certo bigottismo qualifica come immorali e dannosi per l’uomo!) per motivi cosiddetti etici o per altri motivi che non siano di natura puramente scientifica, dei quali devono rispondere soltanto la coscienza dello scienziato e il parere della comunità scientifica. In realtà – afferma il moderno relativismo – la scienza, proprio perché è libera da vincoli religiosi e morali e, soprattutto, perché lavora sul terreno solido dell’esperienza empirica, ha un valore assoluto, superiore a tutti gli altri, perché può dare risultati certi e sicuri, verificabili, e quindi contribuire al vero progresso dell’umanità.


Lo scetticismo e l’utilitarismo

In quarto luogo, alla base del relativismo moderno, c’è lo scetticismo, cioè la convinzione che non solo non ci sono verità oggettive e norme morali sempre valide, ma che, anche se ci fossero, l’uomo sarebbe incapace di raggiungerle. Nel pensiero moderno lo scetticismo ha avuto inizio col “dubbio metodico” di Cartesio, che egli ha superato con la certezza assoluta del Cogito: ma il “dubbio” ha continuato a dominare il pensiero umano dopo di lui fino ai nostri giorni sotto forme diverse, quali l’agnosticismo, l’empirismo, il positivismo comptiano, il neopositivismo logico, il fideismo, l’irrazionalismo, il “pensiero debole”.
Così, il relativismo è fondamentalmente scettico. Ma il suo scetticismo è corretto dal pragmatismo: se sotto il profilo conoscitivo non c’è nulla di certo e di vero, sotto il profilo pratico sono veri, giusti e buoni quelle idee e quei comportamenti che conducono a risultati pratici soddisfacenti. Se una certa azione è in grado di risolvere un problema pratico importante per la vita e la felicità di una persona, quell’azione è “buona” e “giusta”.
Così, per esempio, le credenze religiose – di cui non si può dimostrare la verità – se per molti individui “funzionano”, cioè assicurano una vita più felice, sono “vere” (evidentemente non in se stesse, ma “in riferimento” a quelle persone). Perciò l’efficacia pratica è il metro per giudicare se un’idea è vera o falsa e se una norma etica è buona o cattiva.
Questo ci porta ad affermare che, in quinto luogo, alla base del relativismo moderno c’è l’utilitarismo, in forza del quale si ritiene buono e giusto ciò che è “utile”, vale a dire ciò che in qualsiasi maniera e forma serve a migliorare la vita fisica e spirituale delle persone e delle società, ciò che rende la vita umana più piena, più piacevole, più godibile, e si ritiene invece male – e dunque da evitarsi – tutto ciò che comporta sacrifici, sofferenze e rinunce, tutto ciò che non permette di godersi pienamente la vita o che è di ostacolo alla propria piena auto-realizzazione. Così l’utile è la misura ultima del bene e del male.
Frequentemente, all’utilitarismo si associa l’edonismo, per il quale il bene è ciò che rende felice la vita e permette di goderla senza gli intralci costituiti dalle cosiddette “leggi morali”: in tal caso, il “piacere” in tutte le sue forme – da quelle più nobili e più alte a quelle più comuni e volgari – è il valore supremo della vita, e la norma “morale” che deve guidare gli uomini e le società è: “Massimizzare il piacere e minimizzare il dolore”.


Una sfida radicale alla fede e alla morale cristiana

Il relativismo moderno, che fini qui abbiamo cercato di enucleare, pone alla fede e alla morale cristiana una sfida radicale, in quanto ne nega sia i presupposti razionali – la filosofia dell’essere (la metafisica), l’esistenza di una verità oggettiva che l’intelligenza umana può conoscere, l’esistenza di una legge naturale, che la ragione può conoscere – sia le essenziali verità di fede: l’esistenza di Dio uno e trino, l’esistenza di una Rivelazione divina, nella quale Dio ha comunicato agli uomini i misteri della sua vita intima, ha fatto conoscere loro la sua volontà, dapprima espressa nel Decalogo e poi negli insegnamenti di Gesù di Nazaret, che la Chiesa ha codificato nella morale cattolica.
Questo fatto non deve essere minimizzato o banalizzato, come se l’opposizione tra il relativismo moderno e la visione cristiana della vita, data dalla fede e tradotta nella pratica, sia in campo individuale, sia in campo sociale, fosse un fatto trascurabile e di scarso rilievo. Ciò significa che la sfida che il relativismo moderno lancia alla visione cristiana della vita – e, in particolare, della morale – dev’essere accolta. Anzitutto, essa dev’essere compresa nella sua realtà, profondità e vastità: a questo può aiutare quanto abbiamo detto nelle pagine precedenti, nelle quali abbiamo messo in rilievo che il relativismo moderno è il punto terminale del lungo e accidentato cammino compiuto dal pensiero moderno, iniziato da Cartesio, ma proseguito da Spinosa, Locke, Hume, Kant, Comte, Spencer, Bentham, Nietzsche, fino a giungere ai pensatori di oggi, come Heidegger, gli analisti del linguaggio, Lyotard, Rorty, Derrida e i cultori delle neuroscienze.
In realtà, il pensiero cristiano è chiamato oggi a un confronto estremamente difficile, poiché si tratta di giustificare e riproporre in maniera adatta alla mentalità e al linguaggio del nostro tempo le essenziali verità della metafisica e dell’antropologia cristiana, la possibilità della conoscenza della verità oggettiva e la validità di una legge naturale, fondata sulla natura razionale dell’uomo e sulla sua dipendenza creaturale da Dio.
Purtroppo, quello che si deve deprecare oggi è un certo timore, in alcuni pensatori cristiani, di affrontare queste tematiche. Infatti, la forza del relativismo moderno è la sua capacità di far passare coloro che lo avversano per “fondamentalisti”, per “fanatici”, per persone di altri tempi, attardate su un passato che è morto definitivamente, per persone che si oppongono al progresso scientifico e alla “modernità”, ritenendo di vivere ancora nel Medioevo.


Il fondamentalismo

In realtà, bisogna negare risolutamente che chi – come noi – si oppone al relativismo moderno e lo rigetta come erroneo e nocivo all’uomo sia un “fondamentalista”, come affermava G.P. Prandstraller. Che cos’è infatti il fondamentalismo? Esso è anzitutto un fenomeno storico, sorto negli Stati Uniti, nell’ambiente dell’evangelismo protestante, tra il 1878 e il 1918. Tra gli evangelici si formarono due correnti: l’una “fondamentalista”, l’altra “modernista” o “liberale”, che si distinguevano per il modo diverso di interpretare la Bibbia. Per i fondamentalisti “la Bibbia è opera di Dio soltanto e non di uomini, nel senso che Dio ha ispirato le precise parole del testo biblico a uomini santi”: l’ispirazione non solo si estende a tutte le parti della Bibbia, e quindi alle singole parole, ma fa sì che essa sia infallibile assolutamente e quindi non contenga nessun errore, neppure in campo storico, geografico e scientifico. Se si potesse scoprire il più piccolo errore in qualsiasi campo, non sarebbe più il “libro di Dio”.
Perciò per i fondamentalisti la Bibbia deve essere interpretata in senso letterale, escludendo ogni ricorso al metodo storico-critico: così bisogna credere che Mosè è autore del Pentateuco; che il libro di Daniele risale al tempo di Nabuccodonosor , che Dio ha creato tutti gli esseri così come sono oggi e che quindi l’evoluzionismo in tutte le sue forme è falso e contraddice la Bibbia; che ci si deve opporre al mondo moderno, perché è dominato dal materialismo, dall’ateismo ed è schiavo di Satana, che Gesù distruggerà quando verrà a giudicare il mondo; che bisogna rifiutare ogni ecumenismo e opporsi ai sistemi politici che si ispirano al liberalismo, al socialismo e, soprattutto, al comunismo.
Quando si parla oggi di fondamentalismo e di fondamentalisti, bisogna fare attenzione a non confondere religione e fondamentalismo, quasi che credere in Dio trascendente, Creatore del mondo, Salvatore degli uomini e autore della legge morale, che si è rivelato agli uomini, praticare la religione e osservarne i precetti, sia necessariamente fondamentalismo. In realtà, forme di fondamentalismo si ritrovano oggi in tutte le religioni. Il caso più noto è il fondamentalismo islamico, che poggia su tre principi: 1) il Corano è un libro propriamente “divino”, tutto e soltanto opera diretta di Allah, per cui deve essere interpretato e a applicato alla lettera, senza che sia possibile applicare ad esso i principi ermeneutica usati per le opere “umane”. 2) L’islam è la rivelazione divina, unica e definitiva e dunque l’unica “vera” (ebraismo e cristianesimo sono religioni non false, ma “falsificate” dagli ebrei e dai cristiani). Perciò è volontà di Allah che essa sia accolta e praticata da tutti gli uomini: deve quindi essere “proposta” con la “chiamata” e imposta con il jihad a quelli che non vogliono convertirsi. 3) La legge religiosa coranica (sharìa) deve essere legge dello Stato, perché tutte le espressioni della vita umana devono conformarsi alla legge di Allah.
Ma ci sono forme di fondamentalismo anche nelle altre religioni, come nell’ebraismo, nell’induismo, nel protestantesimo nordamericano. Anche in campo cattolico ci sono alcuni gruppi di tendenza fondamentalista. Non c’è però soltanto un fondamentalismo di natura religiosa. C’è anche un fondamentalismo laico, che consiste nell’esclusione di ogni elemento religioso e trascendente da ogni ambito della vita umana, nell’intolleranza per ogni segno religioso nella vita pubblica, nel non voler tenere in nessun conto, come non degni di attenzione, i sentimenti religiosi delle persone, qualificandoli a priori come frutto di irrazionalità e di superstizione e come fonti di alienazione e di svilimento per il carattere propriamente “umano” dell’uomo. Perciò, accanto a forme di fanatismo religioso ci sono forme di fanatismo laico, non meno virulente.


La Chiesa non è fondamentalista

Abbiamo detto che, all’interno della Chiesa cattolica, ci sono forme di fondamentalismo, ma la Chiesa cattolica non è, come alcuni pensano, fondamentalista; rigetta, anzi, ogni forma di fondamentalismo come contrario alla fede cristiana. Così, afferma che la Bibbia è “ispirata”, ma non “dettata” da Dio, bensì è stata composta, sotto l’azione dello Spirito Santo, da autori umani, i quali nel comporla hanno usato i modi di pensare e di sentire del proprio tempo e hanno scritto secondo il proprio carattere, la propria cultura e la propria sensibilità. Perciò la Bibbia non dev’essere interpretata letteralmente, ma deve essere compresa secondo i comuni principi ermeneutici, tenendo però sempre presente che nella Bibbia Dio, attraverso il linguaggio “umano” dei suoi autori, rivela e comunica il suo disegno di salvezza e la sua divina volontà. Afferma inoltre che il cristianesimo è la “vera” religione e che tutti gli uomini sono chiamati a credere in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo e l’Unico Salvatore degli uomini, ma non la impone, bensì la “propone” alla libera adesione; non combatte né disprezza le altre religioni, ma “nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni” (Nostra aetate, n.2) e invita i cristiani al dialogo interreligioso. Afferma infine sia la libertà religiosa, sia la “legittima autonomia delle realtà temporali”, quali sono la politica e gli ordinamenti politici, sociali ed economici, la scienza e la ricerca scientifica, l’arte e le manifestazioni artistiche, la laicità dello Stato.
Perciò, bisogna fare bene attenzione che quello che la Chiesa condanna nel relativismo moderno è il principio secondo cui non esistono né verità oggettive, né principi morali validi sempre, in ogni tempo e in ogni luogo, ma che tutto, sia nel campo della verità sia nel campo della morale, è “relativo”, dunque soggetto al cambiamento; è il principio che l’uomo nella sua ragione e nella sua libertà è la “misura”, il metro e la norma del vero e del falso, del bene e del male, escludendo ogni trascendenza e chiudendosi nella totale immanenza. In altre parole, la Chiesa rigetta il soggettivismo e l’ateismo che sono la base costitutiva del relativismo moderno. Non rigetta, invece, un certo grado di relativismo nella ricerca della verità e nello sforzo di stabilire i principi morali. Infatti le circostanze storiche, le diversità culturali e perfino le diversità del clima possono influire nello stabilire certe verità e certe regole morali, che a un esame critico possono apparire incomplete. Avviene così che anche la Chiesa, per il fatto di vivere nella storia, può prendere posizione che poi, a un esame più approfondito e dinanzi ai progressi della cultura e della scienza, può ritenere bisognose di correzioni e di integrazioni.
Ad ogni modo, quello che la Chiesa tiene a ribadire con forza – e senza mai stancarsi, nonostante le critiche dure e spesso ingiuste infondate dei relativisti – è che Dio non può essere escluso dalla vicenda umana senza che l’uomo vada incontro sia alla perdita del “senso” della vita umana, sia a forme di barbarie che rendono oggi così dolorosa la storia del nostro tempo, che pure non manca di cose grandi e belle. E’ infatti per la difesa dell’uomo che oggi la Chiesa combatte il relativismo moderno.